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Guerra e cinema, mirino e obiettivo, to shoot. Diretto da Saeed Al Batal e da Ghiath Ayoub, Still Recording è allo stesso tempo un saggio di teoria cinematografica e una scioccante inchiesta sul conflitto siriano. In concorso alla Settimana Internazionale della Critica, tra i titoli più importanti di Venezia 75.
Il volume che Paul Virilio pubblicò nel 1986 dal titolo Guerra e cinema trova in Still Recording una indispensabile postilla visiva. Diretto da due giovani siriani, Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, il film mette in scena la guerra in corso da anni nel loro paese, unendola a una riflessione sul mezzo cinematografico, sulla sua necessità di trovarsi nel mezzo delle cose.
Presentato alla Settimana Internazionale della Critica, Still Recording ci pare come uno dei titoli più importanti di Venezia 75, sia perché totalmente radicato nel presente – la guerra in Siria che sembra non avere più fine – sia perché lo fa cogliendo il senso nel cinema stesso, dando così un notevole contributo alla riflessione sulle potenzialità della macchina-cinema oggi.
Still Recording inizia con una lezione di cinema, probabilmente a Damasco (dove, come vedremo più avanti, il conflitto sembra non essere arrivato), in cui l’insegnante elogia il cinema americano, soffermandosi in particolare su un blockbuster non certo di primo pelo come Underworld; il docente esalta dunque la capacità hollywoodiana di rispettare la centralità prospettica, di osservare scrupolosamente le regole della sezione aurea, e così via; e conclude ricordando ai suoi allievi come, nel momento in cui si fanno delle riprese, si devono rispettare le proporzioni dell’Uomo virtruviano di Leonardo, vale a dire che le porzioni di corpo si possono tagliare (possono essere al di fuori del quadro) solo se si rispettano armonia e geometria dello spazio. E il prologo in questione è fondamentale in quanto Still Recording, per tutto il resto del film, andrà a violare quelle leggi, vista la necessità di riprendere – sul campo di battaglia – in maniera confusa e rapida. Ciò significa anche che, date certe condizioni, non è così importante andare fuori fuoco, oppure può anche essere accettabile di tagliare l’aria sopra alle teste, e via dicendo. Quel che conta è l’immagine, ma non nella sua astrattezza post-produttiva da set hollywoodiano, quanto nella sua concretezza e matericità della ripresa in soggettiva, della ripresa fatta a costo della vita, del fare film è per me vivere (e morire).
I registi dunque vanno in battaglia insieme ai loro amici, ribelli nei confronti del regime di Assad: sparatorie, bombe, esplosioni e quant’altro, vissuto tutto a rischio della vita (e poi, infatti, verremo a sapere sui titoli di coda che alcuni cameramen sono morti sul campo), vissuto tutto sapendo che si può morire da un momento all’altro («Ho capito questo, che se muoio, muoio. Va accettato», dice uno di loro ad un certo punto). Ma, insieme a questo, vi è l’apprendistato verso la messa in quadro: quindi uno di loro ha difficoltà a impostare lo zoom manuale e gli viene spiegato come deve fare, e poi quando muore un amico si sceglie scientemente di non riprenderlo in volto (negando quindi l’armonia di ripresa classica), oppure ancora quando tutti dormono, l’operatore fa un movimento di macchina ruotando per più di 360° e mostrando come i corpi degli uni quasi si completino nei corpi degli altri, senza soluzione di continuità e annullando (e superando) l’idea di prospettiva occidentale. E poi il famoso taglio dei corpi nella messa in quadro che diventa invece una tragica riflessione su corpi tagliati e mutilati, come quando il bambino dice di aver visto – dopo un’esplosione – un pezzo di corpo, senza essere riuscito a capire che parte fosse, una massa informe che è stata gettata nella spazzatura.
Ma in Still Recording assistiamo anche alla sdrammatizzazione sulla guerra, dalla telefonata che un cecchino fa con sua madre proprio mentre punta il mirino verso il nemico, alle battute che si fanno contro Assad, a scopo apotropaico. E assistiamo anche alla volontà di divertirsi di questi ragazzi, tanto che almeno una sera li vediamo andare a divertirsi, ubriacarsi, baciarsi, ecc., come per un’improvvisa e disperata aspirazione a far diventare il loro film un Verão Danado siriano, o uno Spring Breakers. Ma la guerra è sempre lì accanto, a venticinque metri o a cinquanta, come ci viene detto; una guerra infiltrata ovunque, basta girarsi un momento e la si ritrova, quale instancabile forza distruttrice. E anche i confronti dialogici appaiono inutili e ridicoli – come il bellissimo dibattito, fatto attraverso le ricetrasmittenti ,tra un ribelle e un militare di Assad -; confronti che appaiono come dei tentativi inconsci e futili di verbalizzare la guerra, di darle una dimensione da show radiofonico/televisivo. Ma non c’è niente da fare, perché la guerra uccide all’improvviso, senza scampo, come si vede nello scioccante finale, citazione e inveramento di Lo stato delle cose di Wim Wenders.