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Quando entra la storia la vita se ne va

08/10/2018

E solo il nero finale è da considerarsi “documento” autentico della Storia, come se la “vita” avesse “ucciso” il cinema?

Author: GIUSEPPE GHIGI

C’è un dialogo ne Lo stato delle cose di Wim Wenders (Der Stand der Dinge, 1982) che fa al caso nostro. Friedrich, il regista, sta discutendo con Gordon, il produttore, sulla natura del cinema: «Quando entra la storia la vita se ne va», sostiene; ovvero: allorché nel cinema prevale la narrazione il “dal vero” diventa flebile e la “vita” diventa storia, se ne va. Gordon ribatte che «un film senza storia è come una casa senza mura», ovvero che è la stessa ontologia delle immagini a richiedere la narrazione, anzi che non c’è immagine senza storia, e quindi, ne consegue che ogni immagine è senza vita. Il cinema, dunque, “uccide” la vita poiché è necessaria la morte del reale perché viva la storia. Come sostiene Gordon: «tutte le storie sono di morte». Quindi, perché il reale, la vita torni a farla da padrona, bisogna che l’immagine, come narrazione, muoia, ed è possibile forse solo a una condizione: che lo stesso operatore-regista sia ucciso e la camera diventi un occhio indipendente.
A dar ragione ai due personaggi, che in fondo si trovano sulla stessa posizione, sembra essere il finale. Friedrich, mentre sta riprendendo la morte di Gordon, verrà a sua volta colpito; cade a terra morente e la cinepresa continua a riprendere ciò che accade senza essere più governata dall’occhio umano. È tornata la vita con la morte, oppure è solo la morte dell’immagine che è necessariamente scelta? E si possono considerare quei fotogrammi (senza pensare che, qui, nel film, è pur sempre Wenders a decidere) il solo momento di verità, perché, si sa, “quando entra la storia la vita se ne va”?

 

 

Trentasei anni dopo, a Douma, in Siria, città occupata dal quartier generale dell’organizzazione islamista Jaysh al-Islam, una delle tante fazioni che combattono contro il governo di Bashar al-Assad: le forze “regolari” tentano di riprendere il controllo, i combattimenti sono strada per strada, e un cameraman sta riprendendo in prima linea, fianco a fianco con i soldati. Viene colpito a morte da un cecchino, cade a terra e la telecamera continua a riprendere fino al nero finale: è still recording. La sequenza apre Still Recording (Lissa ammetsajjel, 2018) di Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub, ma non è “pensata”, messa in scena come per il film di Wenders: è agghiacciantemente ciò che accade. Non siamo in un set, ma in un teatro di guerra. Le immagini inziali di Lissa ammetsajjel, dopo che l’operatore è stato colpito a morte, continuano ancora per qualche secondo e poi diventano nere, spirano assieme all’uomo. Sono secondi in cui la realtà si è imposta brutalmente sulla narrazione degli eventi, sono esenti dal controllato storytelling. Fino a quale punto della sequenza possiamo dire che non vi è fino in fondo “storia”, fino al momento in cui l’operatore viene colpito a morte? O consideriamo ciò che precede lo still recording un “dal vero” che, pur non essendo completamente indipendente dall’occhio umano, ci offre la “vita”? E solo il nero finale è da considerarsi “documento” autentico della Storia, come se la “vita” avesse “ucciso” il cinema?

 

Dicevamo che questi due esempi fanno al caso nostro per una questione che non si situa solo nel terreno della filologia delle immagini cinematografiche, ma in quello più ampio di stabilire il valore di verità di qualsiasi scrittura. Lo storico Jean Norton Cru, combattente di prima linea nella prima Guerra mondiale, infastidito dai diari, racconti, romanzi sul conflitto, considerati testimonianze deboli, distorsive, se non prive di valore di verità, e pregne di semplice storytelling, decise di raccogliere le témoins di chi considerava autentici combattenti (in genere soldati di prima linea). Paradossalmente, ma non tanto, Cru elevava al massimo grado di verità un taccuino-diario in cui appariva ad un certo punto della scrittura un segno incontrollato dovuto allo scoppio ravvicinato di un ordigno nemico. Era il segno vago, non voluto, privo di quegli errori della memoria e della narrazione che potevano inquinare i fatti e inficiarne il racconto come autentica testimonianza, e quindi documento storico al grado più elevato.
Portando all’eccesso la tesi di Cru, il grado zero delle immagini cinematografiche dovrebbe essere per paradosso il buio, come il nero finale di Lissa ammetsajjel. Nell’assenza di visione nessun élément fictif ne turberebbe il valore di verità: nella morte dell’immagine si avrebbe la sua resurrezione testimoniale. Tuttavia, come il casuale e incontrollato “tratto di penna” nel taccuino dell’ufficiale ci apre alla realtà profonda, anche le immagini “dal vero”, senza dover essere immagini spiranti, possono avere lembi fragili, che, sfuggendo al controllo dell’operatore, svelano e non occultano. Così, al contrario, possono essere volutamente delle messe in scena dell’evento, delle manipolazioni che generano “errori” dovuti alle necessità della grammatica del linguaggio, alle tante costrizioni del particolare set, all’outillage mental di chi riprende e monta i materiali. È forse possibile che anche le immagini più codificate raccontino a loro modo qualcosa del conflitto, e se non propriamente del conflitto almeno dell’apparato mediatico proprio nel modo in cui si è deciso di mettere in scena la guerra.

 

Un errore o la ricostruzione fittizia possono confutare totalmente il valore di testimonianza dei racconti per immagini? In ambito scientifico un solo dato sbagliato potrebbe invalidare l’esperimento; ma la memoria umana e l’esperienza vissuta, così come l’atto del narrare, non sono sottoponibili alle rigide regole dei paradigmi: i margini di errore, le ricostruzioni ambigue, le sovrapposizioni d’immagini sono per il testimone assolutamente impliciti nelle narrazioni di eventi tragici e dolorosi anche quando è solo, o parzialmente, un osservatore, come nel caso dei cineoperatori di guerra il cui statuto è ambiguo.


David Irving poggiava la rimozione dell’olocausto compiuto dai nazisti sugli inevitabili errori nei racconti dei sopravvissuti, su analisi chimiche e ingegneristiche, compiendo una sorta di genocidio della memoria. Il negazionista usava anche fotografie aeree per dimostrare le sue tesi, come se l’immagine fosse incontrovertibile rispetto alla parola: un documento privo di possibilità di manipolazioni e degli errori dovuti alla labilità del ricordo. Lo stesso Cru sembra dare patente di neutralità e oggettività alle immagini cinematografiche con inaspettata leggerezza: «[…] l’inevitabile differenza delle deposizioni rese dai testimoni oculari di un incidente. Un morire per finta dal vero incidente dura pochi secondi e le facoltà umane non possono registrarne le fasi come se fosse un film».


Eppure sappiamo quanto le riprese cinematografiche dei conflitti siano oggetto di un complesso paradigma di finzione e messa in scena e quindi di manipolazione: non sono innocenti. Dobbiamo per questo rigettarle in toto come falsi, oppure esse pur tuttavia ci svelano frammenti di realtà, anche nei loro fantasmi, ovvero nelle assenze cruciali, come, ad esempio, per la prima guerra mondiale, la battaglia che è il momento topico per eccellenza di ogni conflitto?


Forse non è del tutto vero che “quando entra la storia la vita se ne va”, e forse, per paradosso, è proprio quando entra la storia che la vita diventa evidente a noi.

 

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